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Caro Charles, sei indietro di 20 anni
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Essere un europeo in NBA?
Non più un marchio di mediocrità.

Il 28% dei giocatori della NBA 2018-2019 non è statunitense. In totale sono in 108 i componenti dei rosters delle trenta franchigie di uno dei più grandi ed economicamente rigogliosi campionati professionistici del pianeta che non vengono dagli USA. Sono originari di 42 paesi diversi. Gli stessi numeri, riportati indietro di vent’anni, sono ridotti a poco più di un terzo (il 10%), mentre riconducono a una statistica al limite dell’irrilevanza per il 1980 (1.8%). Luka Doncic, talento sloveno ancora teen-ager, appena arrivato negli Stati Uniti dal Real Madrid, ha subito conquistato ogni osservatore e appassionato, indossando la canotta dei Dallas Mavericks. Quando e perché si è passati dai tempi in cui il fenomeno era esotico a quelli in cui il Fenomeno è esotico? Una maiuscola non marca una differenza parziale. Dietro c’è la trasformazione di un movimento che rappresenta l’epitome del business applicato, in maniera vincente, allo sport. 

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Proprio a Dallas si è affermato il meraviglioso genio del tedesco Dirk Nowitzki, MVP della NBA nel 2007, vincitore dell’anello con i Mavs nel 2011, tredici convocazioni per l’All Star Game, per quattro volte inserito nel quintetto ideale della stagione. Nowitzki, atterrato in Texas nel 1998, ha totalizzato, finora, oltre 30mila punti con Dallas. A contendere il comando della Western Conference ai Mavericks, nell’età aurea di Nowitzki, come prima alternativa all’impero dei Los Angeles Lakers di Kobe Bryant, sono stati i San Antonio Spurs, la creatura uscita dalla mente tattica di Gregg Popovich, paradigmatico coach che con il suo playbook ha cambiato il modo di allenare e di vincere. In quella squadra c’era Manu Ginobili, argentino rivelatosi in Italia, partendo da Reggio Calabria, per poi affermarsi alla Virtus Bologna. Da Basket city salì, pure lui, su un volo con destinazione il Texas, come aveva fatto Nowitzki. San Antonio, nell’immaginario socialpopolare, è meno nota di Dallas, ma se qualcosa l’ha collocata al centro della cultura di massa, di certo si tratta della pallacanestro, e in questa transizione verso la fama internazionale un grande contributo l’ha dato Ginobili, che presto si è qualificato come uno degli uomini decisivi per la definitiva consacrazione degli Spurs, con cui ha conquistato quattro anelli. Nella stessa squadra emergeva la sontuosa regia di Tony Parker, passaporto francese, che però è un caso atipico di stranger per la NBA. Il padre di Parker, infatti, Tony senior, dagli USA  si era trasferito in Europa per giocare a pallacanestro. Tony junior, nato in Belgio, a Bruges, è cresciuto in Francia, e la sua formazione cestistica è avvenuta lì. 

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Nowitzki, Ginobili e Parker sono delle figure apicali che narrano uno sviluppo che è divenuto segnante per la NBA. I non americani sono la spina dorsale della Lega, che è sempre alla ricerca di nuovi simboli, di eroi amati e riconoscibili non soltanto da chi segue il basket, ma anche dal semplice curioso. Così, mentre LeBron James resta il re, in una corte che comprende Steph Curry, Kevin Durant e James Harden, ecco che c’è già un principe designato per salire sul trono: Doncic. Un nobile venuto dalla Slovenia, via Spagna, è planato, una volta di più, in Texas. Gli sono bastate poche partite per avere la fila di estimatori e non essere più la next big thing della NBA, bensì per divenire, semplicemente, una Big Thing tout-court. Eppure non è così lontana l’epoca in cui essere europei era un minus per i “Pro” USA. Snobismo? L’effetto di pure considerazioni tecniche? La domanda prevede risposte articolate.

 

Non mi fido della competizione straniera. Non ho nulla contro i giocatori esteri, solo non capisco il loro livello di competizione. Insomma, il fatto che a 18 anni Doncic sia già un MVP è la chiara spiegazione di come la competizione straniera sia una m***a. Nessuno a 18 anni dovrebbe essere migliore di un veterano, in nessun caso. Io sono dentro il mondo NBA da oltre 30 anni e se guardiamo indietro, l’unico 18enne che si potrebbe considerare ‘il vero affare’ è stato LeBron James”. A parlare così non è stato un chiassoso provocatore televisivo, e neppure un distratto laudator temporis acti prestato alla pallacanestro. Queste sono le dichiarazioni che, a proposito dell’imminente trasferimento in NBA di Doncic, in previsione del draft, ha rilasciato, a giugno 2018, Charles Barkley, uno dei giocatori di maggior impatto della storia del basket USA, una stella che ha fatto parte del Dream Team che vinse l’oro alle Olimpiadi di Barcellona, nel 1992, ripetendosi quattro anni dopo ad Atlanta, e che ha attraversato tre lustri formidabili, divisi tra Philadelphia, Phoenix e Houston. Barkley, subito dopo l’irraggiungibile Michael Jordan, è stato il primo campione a catturare, con il suo poderoso atletismo e la feroce determinazione, il pubblico europeo. I poster che lo ritraevano, all’inizio dei Nineties, occupavano le pareti di molte stanze di adolescenti, in Italia come in Spagna o in Francia, scavalcati per numero e quantità solamente da quelli in cui compariva MJ. Il suo giudizio, duro ben oltre la soglia dello scetticismo, certifica come gli stranieri, in NBA, non “buchino” appieno un certo muro di diffidenza. Nonostante tutto, la loro rappresentanza cresce sempre di più. Un accesso che, in passato, non era consentito neppure a fuoriclasse europei riconosciuti e pluridecorati, adesso è aperto a giovani speranze e pure a chi troverebbe difficoltà a essere decisivo nell’A1 italiana. Se una svolta si vuol trovare, occorre guardare nella direzione degli stessi Balcani da cui proviene Luka Doncic.

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Drazen Petrovic, il Mozart dei canestri, era un’icona che aveva rapito i cuori di Sebenico, Zagabria e Madrid. La Jugoslavia aveva perso la guida unificante di Tito, ma restava una sola nazione: negli Stati Uniti lo chiamarono, alla fine degli anni ’80, i Portland Trail Blazers, ma fece poco meno che il figurante, non compreso da Rick Adelman, il coach di una squadra che aveva in Clyde “The Glide” Drexler il portentoso trascinatore. Petrovic non era soltanto un sensazionale giocatore, ma un combattente dalla disciplina ferrea dei cavalieri croati. Non mollò, si trasferì, per sua diretta richiesta, ai New Jersey Nets e fece ammattire il pubblico della Meadowlands Arena – ora la franchigia si è spostata a Brooklyn e la squadra gioca in un impianto avveniristico sponsorizzato dalla Barclays Bank –, che si innamorò alla follia di lui. Un tragico incidente stradale, avvenuto in Germania il 7 giugno 1993, spezzò la sua vita, gettando nella disperazione la Croazia, che era nel pieno del tragico conflitto etnico che ha distrutto la Jugoslavia. Non si spense, però, l’idea che una grande speranza europea potesse affermarsi in NBA. Petrovic aveva aperto una strada che pochi avevano frequentato. L’aveva fatto non solamente con la sua immensa classe e con uno stile inimitabile, ma anche grazie al carisma innato che qualcuno prendeva per arroganza. In qualunque modo, Petrovic se lo poteva permettere, e quando, nel 1989, da tesserato del Real Madrid, fu intervistato da “Sports Illustrated”, chiarì il concetto: “In Europa sono il più forte e ho vinto tutto. Non mi interessa continuare a vincere e a collezionare coppe. Cerco altre sfide e voglio dimostrare di poter giocare anche nell'NBA”. Fu l’inizio di una rivoluzione dall’impronta marcatamente jugoslava, espressione del Paese europeo dalla più straordinaria tradizione cestistica. Sergio Tavčar, voce storica di quella pallacanestro, spiega, nel suo libro “La Jugoslavia, il basket e un telecronista”: “I balcanici sono tutti formidabili giocatori, sono cioè gente che gode nel giocare, dai giochi di carte più semplici fino a perdere fortune al casinò o in azzardate scommesse (normalmente clandestine, of course). E quando si dedicano ad un gioco sportivo, sia individuale che di squadra, questa loro indole esce allo scoperto con tutto il suo devastante impatto”. L’NBA,  realtà agonistica in cui la competizione è pressoché elegiaca, non poteva che essere il terreno di coltura perfetto per temperamenti di questa natura. E i frutti, di conseguenza, maturarono presto.

Gli Stati Uniti, accolta l’ondata jugoslava, si accorsero che anche gli europei sapevano giocare a pallacanestro. Se ne dovettero fare una ragione, qualcuno a proprie spese, come Vernon Maxwell, guardia degli Houston Rockets che, prima di una partita contro i Nets, aveva proclamato: “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il c..o”.  Si riferiva a Petrovic, che poi gli segnò, tutti sparati in faccia, 44 punti. New Jersey vinse per 100-83, ma questo è un dettaglio. La NBA aveva scoperto gli europei. Petrovic era stato il Copernico di quella rivoluzione, portata a compimento anche da Vlade Divac, il centro serbo che aveva preso il posto di Kareem Abdul-Jabbar ai Los Angeles Lakers, dopo il suo ritiro, ed esaltata da Toni Kukoc, incantevole ala spalatina, sintesi del giocatore moderno, proiettato a Chicago, nei Bulls nella traslazione tra l’addio e il ritorno di Jordan. Grazie a loro essere europeo – e, in senso più ampio, straniero – non è più stato un marchio di mediocrità per la NBA. Di lì in poi, anzi, avere giocatori con questo status si tramuterà in una moda. 

Sono entrati così nella consuetudine del basket americano il cinese Yao Ming, prima scelta assoluta degli Houston Rockets al draft del 2002, tanto celebre da apparire in formato “cartoon” in una puntata dei “Simpson”,  e il romeno Gheorghe Mureșan, che con i suoi 2.31 è stato il giocatore più alto della NBA, negli anni trascorsi tra Washington e New Jersey, mentre in Italia il ritorno alla passione per il basket professionistico USA è coincisa con l’affermazione oltre l’Atlantico di Marco Belinelli, Danilo Gallinari e Andrea Bargnani, insieme al transito tra i Detroit Pistons e i Boston Celtics di Gigi Datome, che con la sua folta barba ha “importato” un mood da hipster del tutto sincronico ai gusti delle nuove generazioni. 

Sono distanti gli anni in cui gli stranieri NBA erano un pugno circoscritto e, talvolta, occhieggiante al pittoresco. Prima di Muresan c’era stato, tra gli altri, il sottilissimo e lunghissimo Manute Bol, sudanese,  con il suo fisico da matita umana e un’insolita attitudine per il tiro da tre. Australiani, tedeschi, olandesi, bulgari, capoverdiani, libanesi, lituani, congolesi, slovacchi, ucraini, neozelandesi, polacchi, nigeriani, lettoni, messicani, maliani, libici, iraniani, greci, giapponesi, ghanesi, georgiani, haitiani: puntate il dito sul mappamondo e vedrete che saranno pochi gli stati in cui non troverete neppure un giocatore di basket che sia passato per la NBA. Ed è vero, allo stesso modo, il processo inverso. Fermandosi alla Lega italiana, la presenza straniera è massiccia, poco meno che soverchiante. In A1 gli autoctoni sono una minoranza. Si chiama globalizzazione, baby. Ma se per la NBA un Doncic in più è, anche, uno straordinario veicolo commerciale, lo stesso non si può dire per una dimensione come quella, appunto, dell’Italia, con il campionato nazionale che ha smarrito l’appeal del passato. Se vi capita di entrare in un bar con l’abbonamento alla pay-tv, difficilmente sentirete un cliente chiedere di vedere una partita tra Milano e Trento, o tra Torino e Venezia. Molti di più, invece, ne incontrerete di interessati a seguire Golden State Warriors-Los Angeles Clippers, per vedere in azione Gallinari, oppure per un incontro dei Milwaukee Bucks, per seguire le evoluzioni di Giannīs Antetokounmpo, ala greca di origini nigeriane ascesa al grado di superstar. Con buona pace dei nostalgici di un’era lontana, la NBA di oggi è questa, e gode di ottima salute.

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